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.Chissà: forse, un po di garbo in più e qualche imperativo in meno avrebberocambiato i destini d Italia.«Tu mangiare fino a ultimo boccone»: l infinitoL infinito è confinato a torto nella serie cadetta dei modi verbali.Sembra che la suafunzione più importante sia quella di essere accolto nel vocabolario come forma dicitazione di tutti i verbi, da abbacinare a zufolare; per non parlare dell umiliazioneinflittagli tutte le volte che viene presentato come l unica forma che gli stranieri sonoin grado di usare nel loro italiano approssimativo.Chi non ricorda, del film Via colvento (1939), la gabbia degli infiniti in cui è costretto l italiano dell adorabile Marni,una gabbia ancora più opprimente del corsetto di Rossella?Tu mangiare fino a ultimo boccone, capito?.No, quello no: essere troppo scollato perpomeriggio.Io andare dire tua madre.Bene.Però tenere scialle su spalle: su tua pelletornare lentiggini che io fatto sparire con crema di latte questo inverno.Ora tua pellemolto bianca.Ora, miss Rossella, tu stare buona, mangiare qualche cosa.Se a te nonimportare buona reputazione a me sì.Ti avere detto e ridetto che vera dama in pubblicodovere mangiare poco come uccellino: non stare bene che nella casa di miss Wilkes tuingozzarti e riempirti come tacchino! Quello che giovanotti dire e quello che pensareessere due cose, e a me non parere che lui avere chiesto di sposarti!Il luogo comune di stranieri e italiani che comunicano fra loro a colpi d infinito simoltiplica nei film di Totò.Fabio Rossi, in un libro dedicato all italiano del grandeAntonio De Curtis (La lingua in gioco, 2002), lo ha definito l «infinito tuttofare»: unaspecie di jolly verbale che in Guardie e ladri (1951) fa capolino nel comico pasticcioitaloinglese dello stesso Totò («Io non vendere.Io avere già promettuto altrepersone.») e che in Totò a colori (1952) infiora le labbra graziose dell americanaPoppy («Quando io andare Milano io parlare Tiscordi»), quelle più sottili di Antonio(«E tenere per lei per mio disobbligamèn.disobbligamànt») e anche quelle ben piùrudi del gangster italoamericano Joe Pellecchia («Io fare discorso.Fare stopparemusica.Tu sfottere me?»).Con tutto il rispetto e la simpatia per Marni e per Totò, l infinito è un modo verbalemolto meno primitivo di quanto i loro pur celebri usi ci portino a pensare.Conl infinito possiamo esprimere un dubbio («Essere o non essere?»), esclamare(«Offèndersi per così poco!»), dare un ordine o un istruzione («Circolare, signori!Circolare!»), esprimere un desiderio («Ah, saperlo, saperlo.»), raccontare un fatto(«Appena è entrato Ligabue, tutti lì ad applaudire.»).La straordinaria versatilità di questo modo verbale non finisce qui, perchél infinito, in molti casi, dismette i suoi panni di verbo e, come la più imprevedibiledelle drag queen, assume quelli del nome: «Mangiare (oppure il mangiare) mi piacefin troppo»; «Ho sempre avuto la passione di dipingere (oppure del dipingere)»; «Mirilasso col leggere».Alcuni infiniti, attraverso complesse operazioni di plastica grammaticale, sonodiventati dei nomi veri e propri, con tanto di plurale regolare in -i: per esempio avere(l avere / gli averi), dispiacere (il dispiacere / i dispiaceri), dovere (il dovere / idoveri), essere (l essere / gli esseri) piacere (il piacere / i piaceri), potere (il potere /i poteri), volere (il volere / i voleri).Infine, nessuno dimentichi che l infinito campeggia nei titoli o nei ritornelli dialcune delle più belle e memorabili canzoni italiane, dalla celeberrima e indimenticataNel blu dipinto di blu di Domenico Modugno, ben più nota come Volare, alle piùrecenti e rockettare Vivere una favola, Ridere di te, Vivere senza te, Vivere,Dimenticarsi del grande Vasco, passando per Il tempo di morire e Amarsi un po diLucio Battisti.Il Grammy Award per l uso dell infinito, però, va senza dubbioassegnato alla deliziosa Sotto le stelle del Messico a trapanar di Francesco DeGregori (1985):Sotto le stelle del Messico a trapanar / Sotto la luna dei Tropici a innamorar / Dentro leascelle dei poveri a respirar / Sul pavimento dei treni a vomitar / E quando arriva losciopero a scioperar / E quando arriva la musica a emozionar / E quando arrivan lefemmine a immaginar / E intanto arrivano i treni e si va si va.Come ha spiegato lo stesso De Gregori introducendone la versione dal vivopubblicata nell album «Catcher in the sky», Sotto le stelle del Messico a trapanar «èfatta tutta con dei verbi messi al modo infinito, e tutti questi verbi hanno anchel ultima sillaba accentata, quindi sono parole tronche [.].Io volevo chiamare questacanzone, proprio per chiarezza, Infiniti tronchi; poi però ho pensato che qualchecritico musicale l avrebbe scambiata per una canzone su una foresta sterminata».Basta così: trenta e lode.E non c è niente da capire.«La bocca mi baciò tutto tremante»: il participioSapete perché il participio si chiama così? Perché il suo nome deriva, nelle sueremote origini, dall aggettivo latino particeps, cioè «partecipe», «che partecipa».Igrammatici antichi, che la sapevano lunga, chiamarono così questo modo verbaleperché ne colsero la doppia (se non tripla) identità, consistente nell essere partecipedi più nature: quella del verbo, quella del nome e quella dell aggettivo.Il più delle volte, infatti, il participio è un verbo a tutti gli effetti: da una parte,serve a formare tutti i tempi composti (ho letto, avevi detto, avrà fatto, eccetera) etutte le forme passive (sono apprezzato, erano stati avvisati, fummo attratti,eccetera); dall altra, usato da solo, può rappresentare la forma verbale intorno allaquale si organizza un intera frase:La ragazza, come avevo avuto modo di scoprire io stesso, appena conosciuta la verità[== appena ebbe conosciuto la verità], aveva reagito nel modo peggiore che si potesseimmaginare.Ermanno Rea, La dismissione, cit.Spesso, però, il participio è un vero e proprio aggettivo riferito a un nome a cui siaccompagna:Il petto di Ada era in affanno sotto la casacca, le braccia scoperte, chiazzate di freddo.Margaret Mazzantini, Non ti muovere, cit.Infine, i casi in cui un participio equivale a un nome sono moltissimi
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