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.Ben faranno i Pagan, da che 'l demoniolor sen girà; ma non però che purogià mai rimagna d'essi testimonio.O Ugolin de' Fantolin, sicuroè 'l nome tuo, da che più non s'aspettachi far lo possa, tralignando, scuro.Ma va via, Tosco, omai; ch'or mi dilettatroppo di pianger più che di parlare,sì m'ha nostra ragion la mente stretta».Noi sapavam che quell' anime careci sentivano andar; però, tacendo,facëan noi del cammin confidare.Poi fummo fatti soli procedendo,folgore parve quando l'aere fende,voce che giunse di contra dicendo:223 Dante Alighieri - La Divina Commedia____________________________________________________'Anciderammi qualunque m'apprende';e fuggì come tuon che si dilegua,se sùbito la nuvola scoscende.Come da lei l'udir nostro ebbe triegua,ed ecco l'altra con sì gran fracasso,che somigliò tonar che tosto segua:«Io sono Aglauro che divenni sasso»;e allor, per ristrignermi al poeta,in destro feci, e non innanzi, il passo.Già era l'aura d'ogne parte queta;ed el mi disse: «Quel fu 'l duro camoche dovria l'uom tener dentro a sua meta.Ma voi prendete l'esca, sì che l'amode l'antico avversaro a sé vi tira;e però poco val freno o richiamo.Chiamavi 'l cielo e 'ntorno vi si gira,mostrandovi le sue bellezze etterne,e l'occhio vostro pur a terra mira;onde vi batte chi tutto discerne».CANTO XV[Canto XV, il quale tratta de la essenza del terzo girone, luogodiputato a purgare la colpa e peccato de l'ira; e dichiara Virgilio aDante uno dubbio nato di parole dette nel precedente canto daGuido del Duca, e una visione ch'aparve in sogno a l'auttore, cioèDante.]224 Dante Alighieri - La Divina Commedia____________________________________________________Quanto tra l'ultimar de l'ora terzae 'l principio del dì par de la sperache sempre a guisa di fanciullo scherza,tanto pareva già inver' la seraessere al sol del suo corso rimaso;vespero là, e qui mezza notte era.E i raggi ne ferien per mezzo 'l naso,perché per noi girato era sì 'l monte,che già dritti andavamo inver' l'occaso,quand' io senti' a me gravar la frontea lo splendore assai più che di prima,e stupor m'eran le cose non conte;ond' io levai le mani inver' la cimade le mie ciglia, e fecimi 'l solecchio,che del soverchio visibile lima.Come quando da l'acqua o da lo specchiosalta lo raggio a l'opposita parte,salendo su per lo modo parecchioa quel che scende, e tanto si dipartedal cader de la pietra in igual tratta,sì come mostra esperïenza e arte;così mi parve da luce rifrattaquivi dinanzi a me esser percosso;per che a fuggir la mia vista fu ratta.«Che è quel, dolce padre, a che non possoschermar lo viso tanto che mi vaglia»,diss' io, «e pare inver' noi esser mosso?».«Non ti maravigliar s'ancor t'abbagliala famiglia del cielo», a me rispuose:«messo è che viene ad invitar ch'om saglia.Tosto sarà ch'a veder queste cosenon ti fia grave, ma fieti dilettoquanto natura a sentir ti dispuose».225 Dante Alighieri - La Divina Commedia____________________________________________________Poi giunti fummo a l'angel benedetto,con lieta voce disse: «Intrate quinciad un scaleo vie men che li altri eretto».Noi montavam, già partiti di linci,e 'Beati misericordes!' fuecantato retro, e 'Godi tu che vinci!'.Lo mio maestro e io soli amenduesuso andavamo; e io pensai, andando,prode acquistar ne le parole sue;e dirizza'mi a lui sì dimandando:«Che volse dir lo spirto di Romagna,e 'divieto' e 'consorte' menzionando?».Per ch'elli a me: «Di sua maggior magagnaconosce il danno; e però non s'ammirise ne riprende perché men si piagna.Perché s'appuntano i vostri disiridove per compagnia parte si scema,invidia move il mantaco a' sospiri.Ma se l'amor de la spera supprematorcesse in suso il disiderio vostro,non vi sarebbe al petto quella tema;ché, per quanti si dice più lì 'nostro',tanto possiede più di ben ciascuno,e più di caritate arde in quel chiostro».«Io son d'esser contento più digiuno»,diss' io, «che se mi fosse pria taciuto,e più di dubbio ne la mente aduno.Com' esser puote ch'un ben, distributoin più posseditor, faccia più ricchidi sé che se da pochi è posseduto?».Ed elli a me: «Però che tu rificchila mente pur a le cose terrene,226 Dante Alighieri - La Divina Commedia____________________________________________________di vera luce tenebre dispicchi.Quello infinito e ineffabil beneche là sù è, così corre ad amorecom' a lucido corpo raggio vene.Tanto si dà quanto trova d'ardore;sì che, quantunque carità si stende,cresce sovr' essa l'etterno valore.E quanta gente più là sù s'intende,più v'è da bene amare, e più vi s'ama,e come specchio l'uno a l'altro rende.E se la mia ragion non ti disfama,vedrai Beatrice, ed ella pienamenteti torrà questa e ciascun' altra brama.Procaccia pur che tosto sieno spente,come son già le due, le cinque piaghe,che si richiudon per esser dolente».Com' io voleva dicer 'Tu m'appaghe',vidimi giunto in su l'altro girone,sì che tacer mi fer le luci vaghe.Ivi mi parve in una visïoneestatica di sùbito esser tratto,e vedere in un tempio più persone;e una donna, in su l'entrar, con attodolce di madre dicer: «Figliuol mio,perché hai tu così verso noi fatto?Ecco, dolenti, lo tuo padre e ioti cercavamo».E come qui si tacque,ciò che pareva prima, dispario [ Pobierz caÅ‚ość w formacie PDF ]

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